Specchio di luna: un racconto secolare tra immaginazione letteraria e scienza
Servizio comunicazione istituzionale
20 Luglio 2019
di Stefano Prandi, Direttore dell’Istituto di studi italiani dell’USI, in occasione del 50° anniversario della prima conquista del suolo lunare
1. A piccoli passi verso l'ignoto
«That's one small step for a man, one giant leap for mankind»: questa la frase, poi passata alla storia, pronunciata da Neil Armstrong, comandante della missione spaziale Apollo 11, il 20 luglio 1969 un istante prima di toccare il suolo lunare. Un'affermazione che mette in rapporto la limitatezza delle forze del singolo – quei passi incerti, sospesi tra emozione e timore per la conquista dell'ignoto – e l'orgoglio per le immense possibilità offerte dall'ingegno umano. Benché Armstrong non se ne rendesse conto, la sua frase non faceva che riprendere quella compresenza di aspetti opposti, talvolta contradditori, che per secoli appare come il tratto caratteristico del modo con cui l'uomo ha osservato l'astro lunare, ma uniti nel segno tipicamente umano del cammino: un piccolo passo capace di colmare la distanza tra vicino e lontano, tra il rumore consueto del mondo e gli «interminati spazi» del cosmo. La citazione dell'Infinito di Leopardi non è casuale, perché è stata soprattutto la letteratura a osservare la luna come termine di paragone dell'esistenza terrena, ricavandone quel contrasto di cui si è parlato, così gravido di senso. Leopardi non era certo affascinato dal progresso e dall'entusiasmo per la tecnologia, però aveva immaginato, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, una situazione simile a quella in cui si era trovato l'Apollo 11, vale a dire uno sguardo che dalla luna si dirige sulla terra. È la luna stessa, personificata dall'ingenua mentalità del pastore, a contemplare il nostro pianeta; e questo rapporto mette in risalto un'evidente contrasto, quello tra il «vagar [...] breve» dell'uomo, la sua fragile e effimera esistenza, e il «corso immortale» dei pianeti e degli astri che lo circondano.
2. Dante, il primo astronauta
Questa duplicità si ritrova già nella prima trattazione di argomento lunare della letteratura romanza, quella della Commedia di Dante. Il cielo della luna è la prima tappa del percorso che porterà Dante ad ascendere nel regno celeste fino alla visione di Dio: questo primo passo, straordinario come quello di Neil Armstrong, comporta appunto «one giant leap», la vittoria sulle leggi della fisica, cioè della gravità; Dante, per salire, perde completamente peso. Tale passaggio cruciale si accompagna, nel canto II del Paradiso, alla spiegazione del fenomeno delle macchie lunari. Beatrice dimostra, facendo ricorso all'esperimento dei tre specchi, che esso non dipende dalla differenza di densità dell'astro ma dalla maggiore o minore capacità di ogni corpo celeste di ricevere la virtù divina; è dunque il linguaggio della scienza – s'intende del tempo di Dante – che inaugura il viaggio interstellare della Commedia. Questo rispecchiamento replica, a livello macrocosmico, quello del canto I, in cui Dante riesce a sostenere la vista del sole solo in modo riflesso, guardando gli occhi di Beatrice.
Ma, accanto al rigore e alle certezze della scienza, la Commedia ci presenta, nel momento in cui Dante nel canto III vede i primi beati, quelli appunto del cielo della luna, l'errore: errore che è proprio dell'uomo e che qui allude, tramite la figura di Narciso che si specchia alla fonte, all'imitazione poetica, ma per sottolinearne la fallacia. Dante infatti, trovandosi di fronte a figure diafane e quasi indistinte, crede che siano immagini riflesse e si volta, rendendosi conto solo a questo punto del suo abbaglio. Si tratta, ancora una volta, di un rispecchiamento: «Quali per vetri trasparenti e tersi, / o ver per acque nitide e tranquille, / non sì profonde che i fondi sien persi, // tornan d’i nostri visi le postille / debili sì, che perla in bianca fronte / non vien men forte a le nostre pupille; // tali vid’io più facce a parlar pronte; / per ch’io dentro a l’error contrario corsi / a quel ch’accese amor tra l’omo e ʼl fonte».
3. Una finestra celeste sul mondo
La luna può essere dunque definita il tramite, quasi la finestra attraverso cui l'uomo da un lato contempla il mistero dell'universo attorno a sé, e dall'altro prende atto dei propri limiti entro di sé. Non per nulla già dall'antichità, con l'Icaromenippo di Luciano di Samosata (I sec.), lo sguardo dalla luna assume i tratti del discorso morale: qui la distanza dal mondo terreno permette al filosofo Menippo di Gadara, asceso in cielo come il mitico Icaro, di vedere con chiarezza tutte le insensatezze e meschinità umane. Il viaggio fantastico qui non intende tanto presentare mondi sconosciuti quanto consentire una conoscenza più approfondita di quello che ci appartiene.
Così sarà anche nell'altro grande poeta lunare della letteratura italiana, l'Ariosto. Nel suo Orlando furioso è narrato il viaggio di Astolfo, dapprima a cavallo dell'ippogrifo presso la dimora celeste di Giovanni, autore dell'Apocalisse, poi sul carro di fuoco guidato da quest'ultimo fino alla luna. Qui la prima sorpresa: nessun paesaggio o creatura fantastica, ma una conformazione del tutto simile a quella terrestre: «lo trovano uguale, o minor poco / di ciò ch’in questo globo si raguna, / in questo ultimo globo de la terra». Ma Astolfo ha compiuto questo viaggio straordinario per uno scopo preciso: recuperare il senno di Orlando. Eccolo allora giungere al vallone lunare, luogo in cui è raccolto tutto ciò che si perde sulla terra; tutta la lunga descrizione di entità e oggetti simbolici che segue (i voti, le lacrime degli innamorati, i vani desideri, le gonfie vesciche del potere e della gloria mondana, gli ami d'oro dei doni interessati e le cicale scoppiate degli adulatori di corte) non hanno l'intento di presentare paesaggi fantastici, ma puntano con decisione, con piglio ironico e satirico, sulla vita umana e sulle sue fragilità e contraddizioni.
4. La luna nel cannocchiale: la rivoluzione scientifica
Nel 1609 Giovanni Keplero, uno dei padri della moderna astronomia, scrive il Somnium sive de astronomia lunari. Nonostante l'esotismo e la bizzarria delle creature lunari del paese di Levania descritto dal Somnium, l'intento dell'opera è quello di mostrare coi toni del divertissement filosofico la fondatezza delle teorie astronomiche dello studioso, sulla stessa linea di quelle eliocentriche di Copernico: un colpo mortale al vecchio modello tolemaico, che voleva la terra al centro dell'universo e l'uomo spettatore privilegiato del cosmo. Il 1609 è anche l'anno in cui Galileo costruisce il cannocchiale che gli permetterà le scoperte astronomiche poi esposte l'anno successivo nel Sidereus nuncius, tra cui l'osservazione di una superficie lunare non perfettamente liscia, come voleva la cultura aristotelico-tomistica, ma piena di irregolarità, «disuguale, scabra, ripiena di cavità e sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra». Grande ammiratore dell'Ariosto, Galileo descriveva la luna, grazie all'esattezza del suo strumento di osservazione, proprio come l'aveva immaginata la fantasia dell'autore dell'Orlando furioso.
Copernico, Keplero e Galileo avvieranno una trasformazione che andrà molto al di là dell'ambito astronomico per farsi nuovo paradigma di pensiero, modello attraverso cui l'uomo immagina se stesso e il proprio posto nel cosmo. Ancora Leopardi, ne Il Copernico, metterà in scena questo radicale cambiamento di mentalità, senza alcun trionfalismo, anzi con l'ironia che caratterizza le Operette morali. Il Sole dichiara di essere stanco di girare attorno alla Terra immobile (la vecchia teoria tolemaica) «per far lume a quattro animaluzzi, che vivono in su un pugno di fango» e convoca Copernico perché convinca la Terra a girare attorno ad esso. Alla fine, persuaso, Copernico osserverà che la nuova realtà «sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e pertanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quel che tocca alla parte speculativa del sapere».
5. Nostra sorella luna: il Novecento
«Maledetto sia Copernico!»: questa l'esclamazione con cui esordisce il romanzo della perdita delle certezze, Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello (1904). La luce della ragione si fa illusoria: mentre nel Copernico di Leopardi il Sole afferma: «se gli uomini vogliono veder lume, che tengano i loro fuochi accesi», ne Il fu Mattia Pascal non resta all'uomo che la filosofia del lanternino «che ciascuno di noi porta in sé acceso» e che proietta «le vane forme della nostra ragione». Cosciente d'esser posto «su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché», come ancora afferma il protagonista del romanzo, l'uomo del Novecento rifiuterà l'immagine, propria della cultura romantica, di una luna custode della fusione panica tra uomo e natura, accanendosi a sfigurare i toni dell'idillio. Sarà così il futurista Marinetti a levare il grido «Uccidiamo il chiaro di luna!», mentre Gianpiero Lucini, nelle sue Espettorazioni di un tisico alla luna, inanellerà una sequenza di epiteti assai poco lusinghieri: «luogo comune delli sfaccendati», «mezza maschera vuota di simboli», «occhiaccio strabico e permaloso».
Ma, dopo la furia iconoclasta delle avanguardie, sarà il secondo Novecento a riscoprire nella luna il silenzioso interlocutore di chi rifugge dalle facili certezze e si mette in ascolto del mistero, di quel nulla che fonda tutto ciò che esiste. Sergio Solmi, ispirandosi alla Levania di Keplero, definirà la luna, nella poesia eponima, «il punto fermo apposto alla insensata / fantasia delle forme. [...] Lo zero / che ogni calcolo spiega; [...] il concreto, / bianco, forato, calcinato fondo / dell’essere».
Un altro grande ammiratore di Ariosto, Italo Calvino, vedrà nella luna quella leggerezza e quell'essenzialità di cui la terra difetta così penosamente, e che nelle Lezioni americane consegnerà prima di morire agli uomini del nuovo millennio come lascito irrinunciabile. Calvino, in particolare nei primi quattro racconti lunari delle Cosmicomiche, assegna alla luna il ruolo fondamentale che è anche proprio della letteratura, quello di incarnare uno sguardo estraniante, di rivelare la differenza e la diversità delle prospettive: «Visto dalla Terra eri come appeso a testa in giù, ma per te era la solita posizione di sempre, e l’unica cosa strana era, alzando gli occhi, vederti addosso la cappa del mare luccicante con la barca e i compagni capovolti che dondolavano come un grappolo dal tralci» (La distanza dalla luna). Cambiano i tempi e le visioni del mondo, ma luna non cessa per questo di offrirsi come specchio dell'umano nella sua più intima essenza.