Privatizzazione del diritto, il lato oscuro della rivoluzione digitale

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Servizio comunicazione istituzionale

30 Marzo 2020

Negli ultimi decenni, travolti dal rapido e imprevedibile cambiamento tecnologico, dalle sfide della trasformazione digitale e dalla globalizzazione, i poteri legislativi delle nazioni hanno lasciato aperto il campo all'autoregolamentazione, specialmente nell’ambito del diritto digitale. Di fatto, oggi molte normative sono sempre più formulate tramite codici di condotta delle associazioni di categoria, condizioni generali dei fornitori di servizi e delle piattaforme Internet, e standard sviluppati dagli organismi di normazione (ISO, per esempio). Ma la “privatizzazione del diritto” è un fenomeno irreversibile? Non per Bertil Cottier, professore ordinario di Diritto della comunicazione all’USI, che in un recente contributo osserva i primi segnali di ripresa del controllo da parte dello Stato.

La rivoluzione digitale ha scombussolato il modello gerarchico dell'ordine giuridico, composto dai diversi blocchi normativi - costituzionale, legislativo e normativo - che si incastrano armonicamente, sostituendolo con un modello frammentato, talvolta caotico, in cui le fonti giuridiche si intrecciano o si scontrano con la logica. Due le ragioni principali dietro questa evoluzione, stando alla tesi del Prof. Cottier. In primo luogo, il moltiplicarsi dell'attribuzione di poteri legislativi a entità amministrative di rango inferiore e, in secondo luogo, l'affermarsi di un sistema normativo ibrido, frutto della consultazione e della cooperazione tra il settore pubblico e quello privato (contratti amministrativi) o della validazione statale di regolamenti privati (estensione dei contratti collettivi, approvazione di norme ecc.). In altre parole, si è passati a un modello di “autoregolamentazione regolamentata”.

L’ambito più toccato da questa evoluzione è il diritto digitale, che per molti versi è appannaggio del settore privato. Negli anni lo Stato ha fatto un passo indietro, lasciando il campo libero agli attori del mercato (operatori di telecomunicazioni, piattaforme Internet, motori di ricerca, e anche Wikipedia), confrontati con la necessità di disciplinare le loro attività e quelle dei loro utenti, ma che non esitano a dettare la loro volontà. Tanto che i termini e le condizioni generali dei contratti per la fornitura di servizi, i regolamenti aziendali, i codici di condotta delle associazioni professionali e gli standard ISO sono arrivati a costituire la parte principale del quadro giuridico nel cyberspazio, generando "una cacofonia di standard".

Le condizioni generali dei gestori di piattaforme e dei fornitori di servizi online, in particolare, è senza dubbio quella che maggiormente incide sull'ordinamento giuridico del cyberspazio; questa categoria è dominata infatti dei giganti digitali come Facebook (oltre due miliardi di utenti) e Google (oltre il 90% del mercato dei motori di ricerca). Questo uso crescente dell'autoregolamentazione è una risposta a esigenze diverse e spesso cumulative. Si va dall'esigenza di ordine pubblico per salvaguardare la qualità dei servizi forniti, al desiderio di stabilire (o almeno dimostrare sensibilità per) una certa etica della comunicazione online, al desiderio di stabilire regimi uniformi di applicazione globale, e/o il tentativo di assumere un ruolo guida nel prevenire indebite interferenze da parte dello Stato.

“La trasformazione di una comunità di utenti in uno Stato esterno allo Stato deve essere, se non contrastata, almeno incanalata con risolutezza”, afferma Cottier. “Oggi lo Stato, in Svizzera per esempio, sta riprendendo il controllo legislativo in alcuni ambiti ma, paradossalmente, anziché legiferare in modo risoluto con normative rigide, sta facendo sue le “soft law” (normative non vincolanti) e le erige a leggi vere e proprie. Solitamente, questo processo si compie al contrario, ma è comunque un segnale incoraggiante”, sottolinea Cottier.