La libertà nella prospettiva delle scienze umane - Invenzione e libertà

Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, fonte: Wikimedia
Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, fonte: Wikimedia

Servizio comunicazione istituzionale

1 Luglio 2022

Continua il ciclo di interviste La libertà nella prospettiva delle scienze umane in collaborazione con l’Istituto di studi italiani dell’USI. In questa ultima puntata Sara Garau, professoressa di Letteratura del Sette- e dell’Ottocento nei programmi di Bachelor e di Master in Lingua, letteratura e civiltà italiana approfondisce il rapporto tra invenzione e libertà.

 

Professoressa Garau, ci vuole spiegare il titolo proposto per questa puntata, dirci qualcosa di questo rapporto tra libertà e invenzione?

È un titolo allusivo in effetti: rievoca uno scritto ormai classico, L’Invention de la liberté. 1700-1789 di Jean Starobinski (degli anni ’60, ripubblicato ancora nel 2006), sul confluire delle arti nell’esprimere e dare letteralmente forma al terreno in cui si compie quella cesura della Rivoluzione di cui ha già parlato qui il collega storico, Massimo Baioni, con i suoi «effetti dirompenti sulla vita politica e sui [suoi] linguaggi». Ma il binomio voleva alludere anche ai Percorsi dell’invenzione stessa – è il titolo di un volume di Maria Corti – e a quella libertà di pensare mondi possibili a partire dal reale, ma anche in sua alternativa, per cui chi inventa si dimostra pronto «a vedere nel reale delle possibilità di essere altro». Proverei a collegare questi due piani, intercettando anche alcune delle considerazioni che mi hanno preceduta in questo spazio di riflessione su un tema che è tornato a interrogarci – si è anzi imposto, e in maniera inattesa – in questi ultimi anni, nel corso dei quali abbiamo visto minacciate libertà che consideravamo scontate, sperimentando al contempo (a momenti, almeno) il valore della solidarietà, e il fatto che questa possa esprimersi anche nella riduzione delle libertà individuali.

 

Questo rapporto tra libertà e limitazione esiste nell’ambito dell’invenzione?

Certamente. Pensiamo solo alla siepe leopardiana, oltre la quale spazia l’immaginazione... «Con assoluta libertà non si costruisce, non si inventa», ha scritto, appunto, Corti commentando il passaggio dal momento dell’intuizione all’espressione, che non prescinde mai da strutture preesistenti: la tradizione e i suoi modelli da un lato (ne ha parlato già Carla Mazzarelli, a proposito della libertà artistica), dall’altro gli stessi codici (linguistici, poetici, le regole fissate da un dato genere letterario ecc.) con le loro potenzialità e i loro vincoli. Altra cosa sono poi, naturalmente, i condizionamenti storici e sociali, che incidono a loro volta, e mi viene qui da pensare a questioni che torniamo spesso ad affrontare anche con gli studenti nel contesto storico-letterario che insegno.

Tra Sette- e Ottocento, il tema libertario è onnipresente nel linguaggio letterario, come in quello politico: non solo laddove la letteratura si fa discorso politico, concependosi come possibilità di agire nel presente e al contempo dar forma a un nuovo ideale dello statuto d’indipendenza del libero scrittore (il trattato Della tirannide di Alfieri – autore non a caso intensamente riletto dalla critica nel secondo Dopoguerra – è dedicato «Alla Libertà» e a nessun mecenate o principe). Ancora, osserverei come il libertinage nel Settecento significhi prima libertà di pensiero e solo in seguito “licenziosità”. Esso ha creato grandi figure – vere o immaginarie – come Casanova o Don Giovanni, entrambe all’origine di invenzioni ulteriori (e nel caso di Casanova il primo a prendersi la libertà di riscrivere il proprio personaggio è stato Casanova stesso, nella spesso menzognera Histoire de ma vie). Altrove – mi ci fa pensare proprio la fine di Don Giovanni che muore perché rifiuta il pentimento – libertà può significare, anche, la scelta della morte. Accade nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis e, prima, nel Werther, imitato all’epoca non solo da Foscolo, dentro ai mondi possibili del letterario ma anche, tragicamente, al di fuori. E che questo accada nel contesto di un genere come quello romanzesco, ancora in via di definizione, anche per quanto concerne proprio i confini tra autentico e fittizio, non è forse un caso.

 

I generi, i codici, le forme cui accennava prima preesistono all’invenzione, ma a loro volta chiedono di essere interpretati.

Direi, innanzitutto, che i casi che ho appena menzionato, sotto questo aspetto, parlano anche della costante possibilità di riconfigurazione di queste strutture. In Mozart, ad esempio, i limiti, una volta rigidi, tra opera seria e opera buffa si confondono; mentre il genere del romanzo – ancora alla ricerca di un proprio statuto, come dicevo – si appropria nel Settecento della forma epistolare, che non è soltanto forma dell’intimità soggettiva, dell’immediatezza, della disposizione al dialogo, ma anche forma aperta, modulare, per così dire, libera di ricomporsi oltre la rigida linearità del racconto. Non si può non ricordare, a questo proposito, come sia sempre di stampo settecentesco una narrazione fortemente digressiva, improntata al libero divagare come la troviamo in Laurence Sterne, ma anche in un enciclopedista quale Diderot. E farei un ultimo esempio, guardando invece alla tradizione della poesia italiana, dove la rima, requisito canonico e obbligato del codice poetico – che sostanzialmente si perderà nella complessiva messa in questione dei generi nel Novecento – conosce delle importanti “liberalizzazioni” sempre in questi anni, con la grande benché controversa fortuna del verso sciolto, privo dunque della costrizione della rima. È interessante osservare che questo fenomeno può arrivare a giustificarsi adoperando un lessico di valenza politica: «ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in Versi Sciolti», scrive ironicamente Giuseppe Parini a inizio del Giorno, poemetto, come si sa, altamente impegnato non solo sul piano morale...

Che poi proprio fra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, in contesti e con premesse diversi – dall’Ouvroir de Littérature Potentielle, o OuLiPo, fino al neometricismo italiano – sorgano poetiche che cercano un potenziamento creativo proprio ponendo la regola, la contrainte, all’inizio del processo (o gioco) dell’invenzione, è ancora un altro discorso. Per rimanere nel campo della poesia, vi rientra ad esempio la riattivazione della forma chiusa del sonetto, dove come ha scritto il poeta Giovanni Raboni il «ritorno alla prigione metrica» può significare «fare un passo indietro per ritrovare uno slancio di libertà anche formale». A conferma, se non altro, della presa di coscienza di quanto ho detto prima, citando la Corti, ovvero che con l’assoluta libertà non si costruisce: non si inventa.